Quali sono i formaggi più utilizzati nelle cucine italiane? I formaggi a pasta dura, dove l’impiego di latte per kg di prodotto è il più elevato e i tempi di stagionatura sono tra i più lunghi in assoluto.
La storia di questi formaggi ha radici molto antiche. La loro nascita risale intorno al 1100, anche se l’origine precisa è ancora incerta. Altre fonti infatti indicano la data del 1135 ritenendolo l’anno della nascita del formaggio Grana nell’Abbazia di Chiaravalle.
Conditio sine qua non per la produzione di formaggi a pasta dura è la qualità del latte, considerando soprattutto il fatto che gran parte delle lavorazioni viene eseguita a latte crudo. La raccolta del latte non dovrebbe avvenire a temperature inferiori agli 8 °C.
La refrigerazione in effetti porterebbe alcuni inconvenienti:
- Solubilizzazione della β-caseina con diminuzione della resa
- Diminuzione della capacità di affioramento del grasso
- Inibizione dei mesofili a discapito dei psicotrofi
L’affioramento del latte è una delle fasi di tecnologia che caratterizza sia il Grana Padano che il Parmigiano Reggiano (comprendendo anche il Trentingrana); quando arriva in caseificio il latte crudo viene immesso all’interno di affioratori oppure bacinelle d’affioramento. Questa tecnica, oltre alla separazione del grasso con una buona eliminazione delle spore di clostridi, serve anche per raggiungere il rapporto voluto di grasso su caseina. Uno dei formaggi a pasta dura di grande interesse è l’Emmental svizzero che al giorno d’oggi è uno tra i più imitati a livello internazionale.
L’acidificazione del latte mediante sieroinnesto è un’altra particolarità di queste lavorazioni.
Il siero-innesto è costituito da una microflora lattica prevalentemente termofila che si tramanda di giorno in giorno. Il siero innesto deve essere ottenuto dall’acidificazione del siero cotto dalla caseificazione precedente. Il siero ancora caldo viene trasferito in apposite fermentiere (un tempo tradizionalmente damigiane di vetro) in cui l’opeatore dovrà saper intervenire per pilotare l’acidificazione cercando di favorire lo sviluppo dei fermenti lattici e di conseguenza l’attività fermentativa dell’innesto usato in caldaia. Al termine della fase di acidificazione il siero innesto dovrebbe avere un’acidità compresa tra i 28 e i 32 °C SH/50 ml.
In funzione alla pratica tecnologica di trasformazione, normalmente la dose approssimativa del sieroinnesto nel latte è di circa il 3% (circa 30 litri su una caldaia da 1000 litri).
La struttura del siero innesto naturale è di estrema complessità. È proprio l’aggiunta di questo innesto che determinerà la tipicità con i profumi e gli aromi nel prodotto finito. La dose di innesto sopra citata dovrebbe incrementare l’acidità in caldaia da 0,6 a 0,9 °C SH/50 per ml.
Il siero innesto chiaramente viene usato quasi esclusivamente per i formaggi DOP e sono proprio questi negli ultimi anni a notare in modo importante il cambiamento del latte. Il latte crudo alla stalla è sempre più scarico di batteri lattici. Le lavorazioni in caldaia per aumentare la resa e rendere questi prodotti economicamente sostenibili necessitano di lavorazioni con un rapporto grasso/caseina sempre più alto e cotture a temperature sempre maggiori. Queste scelte tecnologiche richiederebbero una flora forte per garantire acidificazioni corrette, di conseguenza avremmo bisogno di sempre più batteri, ma lavorando in questo modo ne uccidiamo sempre di più.
In America e anche nel resto del mondo sono stati e vengono prodotti formaggi duri con inoculo di fermenti liofilizzati con ottimi risultati.
Un’altra constante importantissima dei formaggi duri è l’uso esclusivo di coagulanti a forte potere e nel caso di alcune DOP è previsto l’uso esclusivo di caglio di vitello. La dose di caglio varia in base alla temperatura del latte e alla sua acidità, mediamente però si calcolano circa 40 g di caglio in polvere per 1000 L cosi da avere un tempo di coagulazione che fa dai 7 ai 10 minuti. Il caglio è determinante sia sulla formazione del coagulo sia successivamente sullo sviluppo della flora batterica nel sieroinnesto.
Un additivo tollerato dal Grana ma vietato nel Parmigiano è il lisozima. Questa proteina estratta dall’albume d’uova ha un’attività enzimatica che lisa le pareti delle cellule di Clostridium tyrobutyrricum impedendo cosi la formazione del gonfiore tardivo. Chiaramente questo additivo va dichiarato in etichetta. La dose di lisozima è di circa 3 mg per litro di latte in caldaia.
I principali difetti per questa tipologia di formaggi a lunga stagionatura sono i gonfiori, che in base alla loro comparsa vengono suddivisi in gonfiore precoce e gonfiore tardivo.
Il gonfiore precoce si nota subito dopo le prime fasi di fabbricazione. Le forme possono spezzarsi, deformarsi e le forme tendono a galleggiare in salamoia. La causa di questo difetto è da ricercare soprattutto nel gruppo dei coliformi. Spesso e volentieri la fonte di questo inquinamento è da ricercare nella scarsa igiene del latte crudo.
Il gonfiore tardivo è il difetto più comune per le paste dure. È legato alla presenza di spore in particolar modo di Clostridium sporigenes e Clostridium tyrobutiricum. Queste spore arrivano nel latte specialmente attraverso gli insilati. L’ aggiunta di lisozima può contenere la comparsa di questo fenomeno, a livello di spore superiori a 1000 per litro anche il lisozima però risulta inefficiente. Aggiunte di nitrati, nisina potrebbero dare effetti positivi, tuttavia i disciplinari di vari formaggi ne vietano l’uso.